Ernia cervicale e cervicobrachialgia

L’ernia del disco cervicale, più comunemente nota anche come ernia al collo, è una patologia benigna, che però può avere conseguenze invalidanti per il paziente. Fra queste, anche la cervicobrachialgia, ovvero un forte dolore che si espande dalla cervicale all’estremità di un arto. È quindi importante conoscere la struttura della nostra colonna vertebrale e i legami fra la patologia e questo disturbo.

Anatomia della colonna vertebrale

La colonna vertebrale (rachide) è divisa in tre zone: cervicale, dorsale e lombo-sacrale. Nella zona del collo, il rachide cervicale è costituito da sette vertebre, dette vertebre cervicali (indicate con sigle da C1 a C7). Queste sono separate dai dischi intervertebrali, il cui nucleo centrale ha consistenza polposa, in quanto composto d’acqua per circa il 90%; il nucleo è a sua volta circondato da un anello fibroso. Tale struttura permette al disco di fungere da ammortizzatore durante i movimenti della colonna vertebrale, che possono così essere fluidi. 

La parte anteriore delle vertebre è formata dai dischi e da un corpo vertebrale, mentre nella parte posteriore sono presenti archi ossei (lamine e spinose) separati da legamenti e due articolazioni intervertebrali a ogni livello.

All’interno della vertebra, attraverso il canale spinale cervicale, passa il midollo spinale, ovvero la struttura nervosa centrale che connette il cervello al resto del corpo: da qui circolano tutte le informazioni che riguardano la funzionalità motoria, la sensibilità e il funzionamento degli organi interni. Dal midollo spinale fuoriescono 16 radici nervose cervicali, equamente divise fra destra e sinistra (da C1 a C8). Un nervo destro e uno sinistro escono da un’apertura presente in ogni spazio intervertebrale (forame intervertebrale), dirigendosi verso i muscoli e la pelle di entrambe le braccia.

Colonna vertebrale cervicale
Radiografia

Cos’è un’ernia del disco cervicale e quali sono le cause?

Fra le cause dell’ernia del disco cervicale, può esservi la naturale usura dei dischi in questa specifica regione della colonna, che avviene con il passare del tempo. Possono inoltre influire posture errate, colpo di frusta, aumento del carico sul rachide, sollecitazioni ripetute e vibrazioni sulla zona interessata, debolezza muscolare o dei legamenti. 

In ogni caso, può risultarne una discopatia: il disco può perdere idratazione, elasticità, spessore. In un disco vertebrale degenerato, se l’anello non si rompe ma si deforma per rispondere allo sporgere del nucleo, si parla di protrusione discale. Se si rompe l’anello fibroso del disco, può fuoriuscire il nucleo polposo, che si dirige verso il canale spinale o i forami: così si manifesta l’ernia del disco. In genere, la sua consistenza è molle, ma può anche essere dura in presenza di calcificazioni e osteofiti (piccoli speroni ossei). Bisogna inoltre distinguere tre tipologie di ernia del disco:

  • contenuta sotto un legamento del canale spinale
  • espulsa nel canale, poiché il nucleo del disco è riuscito a rompere il legamento
  • migrata quando il frammento scende o sale nel canale

Fra le conseguenze di ernia al disco cervicale: la cervicobrachialgia

Un’ernia al collo può non manifestarsi con sintomi precisi, o al contrario può comprimere una radice nervosa e a volte perfino il midollo spinale.

Fra i principali sintomi di ernia al disco cervicale vi è la cervicalgia, un dolore intenso al collo. Quando questo si irradia nella spalla o lungo il braccio e la mano, prende il nome di cervicobrachialgia, vera e propria condizione medica. Si tratta di una sensazione dolorosa solitamente molto forte, caratterizzata dalla percezione di scatti elettrici e formicolii. Il dolore della cervicobrachialgia può anche essere accompagnato da debolezza nelle mani o nelle braccia. Spesso i sintomi si manifestano esattamente in uno o più aree del braccio, ciascuna di competenza di una radice nervosa (da C5 a C8).

Sintomi di ernia del disco cervicale

Se una radice nervosa viene compressa, possono presentarsi la paresi (debolezza) o la paralisi (assenza di movimento) di alcuni muscoli del braccio corrispondente all’area di quel nervo. Fra gli altri sintomi di ernia del disco cervicale si possono quindi comprendere anche mal di testa o impressione di vertigini.

Se invece è il midollo spinale a essere compresso dall’ernia, può svilupparsi una mielopatia cervicale, con debolezza in tutti gli arti (quindi sia superiori che inferiori), disturbi urinari e disfunzioni sessuali.

La diagnosi di ernia del disco cervicale

In presenza di cervicobrachialgia, l’esame clinico del neurochirurgo consente di risalire alla possibile localizzazione della compressione. Si rivelano poi essenziali gli esami strumentali.

L’esame più efficace per giungere a una diagnosi di ernia del disco cervicale è la Risonanza Magnetica cervicale, attraverso cui è possibile analizzare lo stato del disco, vedere con chiarezza il midollo, le radici nervose e i legamenti, e riconoscere con precisione l’ernia.

Tramite TAC cervicale è invece possibile visualizzare ancora più dettagliatamente le vertebre e i becchi artrosici.

Per studiare le ossa e il posizionamento della colonna, si esegue una Radiografia con il paziente in piedi. Per esaminare il movimento della colonna, si può anche ricorrere a radiografie dinamiche

Con l’Elettromiografia (EMG) si registra l’attività elettrica dei vari muscoli del braccio, alla ricerca di una o più zone di sofferenza legate alla compressione delle radici nervose. 

I Potenziali Evocati Somato-Sensitivi (PESS) o Motori (PEM) registrano invece l’attività elettrica motoria e sensitiva attraverso il midollo spinale.

Ernia del disco cervicale C3C4 (RM)
Ernia del disco cervicale C5C6 (RM)

Ernia del disco cervicale: quando operare?

Non è detto che per un’ernia del disco cervicale la giusta terapia sia l’intervento chirurgico. È lo specialista, una volta studiata a fondo la patologia nel paziente, a valutare il percorso di trattamento corretto. Se non si manifestano sintomi gravi, come paresi o paralisi, o i segni di una compressione del midollo spinale, si consiglia di seguire prima di tutto una terapia farmacologica e/o fisioterapeutica. Circa l’80% dei pazienti con cervicobrachialgia tra giovamento dall’assunzione di farmaci antidolorifici, antiinfiammatori e steroidei, o addirittura vede la sintomatologia risolversi spontaneamente.  Ecco perché, in concomitanza con una terapia antalgica (di gestione del dolore), il neurochirurgo attende in genere un mese o due dai primi sintomi prima di proporre un intervento chirurgico. Questo può rendersi urgente in caso di paralisi o di mielopatia. Se queste manifestazioni più serie sono assenti, ma il dolore è tenace e impatta sulla qualità della vita, si può valutare l’opportunità di un intervento di discectomia e artrodesi cervicale o di artroplastica cervicale.

Video esplicativo sull’ernia del disco cervicale (in Inglese)

Video esplicativo sulla radicolopatia cervicale (in Inglese)

Dott. François LECHANOINE

Neurochirurgo Senior Consultant, specialista in chirurgia Cerebrale, Vertebrale mini invasiva e pediatrica, presso il Maria Cecilia Hospital di Cotignola, il Piccole Figlie Hospital di Parma e la Domus Nova di Ravenna, ospedali di alta specialità, accreditati S.S.N. e convenzionati con la maggior parte dei circuiti assicurativi internazionali.

Segreteria: aperta da Lunedì al Venerdì dalle 09:30 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 18:00

 348 916 3317

Studi: Milano, Roma, Napoli, Caserta, Bari, Mola di Bari, Domegge di Cadore, Ravenna, Castrocaro Terme, Fermo.
 

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Angioma cavernoso

L’angioma cavernoso, o cavernoma, è una lesione costituita da vasi sanguigni di diverse dimensioni, ricolmi di sangue e caratterizzati da pareti sottili. Può trovarsi in varie zone del sistema nervoso: tessuto cerebrale, midollo spinale, meningi (specialmente nello strato della dura madre), tronco encefalico, nervi cranici. 

Quanto e come è diffuso l’angioma cavernoso ?

Questo tipo di malformazione è in realtà piuttosto diffuso: si stima che sia presente in 1 persona su 100/200, tanto che costituisce l’8-15% circa di tutte le anomalie vascolari intracraniche e spinali. Tra i fattori di rischio per la formazione di un angioma cavernoso è da considerare la familiarità: se si è sviluppato in un genitore l’angioma cavernoso familiare (quindi ereditario), i figli hanno il 50% di possibilità di soffrire della medesima condizione. 

Angioma cavernoso: la diagnosi

L’angioma cavernoso non risulta visibile durante l’angiografia e per un motivo ben preciso: il sangue scorre più lentamente all’interno dei vasi. Proprio questa particolare tipologia di circolazione sanguigna è molto probabilmente la ragione per cui i sintomi risultano più lievi rispetto ad altre lesioni. Per giungere a una diagnosi certa, lo strumento ottimale è la risonanza magnetica con e senza contrasto e con sequenze gradient echo. Secondo i dati, la diagnosi avviene già in giovane età:

  • 25-30% delle diagnosi in pazienti di 20 anni o più giovani
  • 60% in pazienti fra i 20 e i 40 anni
  • 10-15% in pazienti con 40 o più anni

I sintomi dell’angioma cavernoso cerebrale

Circa il 30% dei soggetti con angioma cavernoso inizia infatti a percepire sintomi soprattutto nella fascia d’età compresa fra i 20 e i 30 anni. È da sottolineare che in alcuni casi l’angioma può essere del tutto asintomatico. Se così non è, ciò è da mettere in relazione alla sua localizzazione, dal momento che la struttura circostante tende a fare resistenza. Gli stessi deficit neurologici sono da connettere alla zona precisa in cui si trova l’angioma cavernoso. Fra i sintomi più comuni di cavernoma vi sono:

  • cefalea
  • crisi epilettiche
  • debolezza degli arti superiori o inferiori
  • disturbi della vista
  • problemi di equilibrio
  • disturbi della memoria e dell’attenzione

I sintomi possono presentarsi o scomparire, a seconda dei cambiamenti relativi alla malformazione: questa può infatti aumentare o diminuire nelle dimensioni. Anche il sanguinamento e il conseguente assorbimento influiscono sulla sintomatologia. 

Il trattamento dell’angioma cavernoso

Quando si è di fronte a un angioma cavernoso asintomatico, rilevato solo durante esami con altri obiettivi, sarebbe bene tenerlo monitorato con risonanza magnetica almeno una volta all’anno per due anni e in seguito una volta ogni cinque. L’osservazione è necessaria, ma non stringente: questo perché, dato il flusso sanguigno ridotto, il rischio di emorragia non è elevato, come invece accade nel caso dell’aneurisma cerebrale. Al paziente si può poi consigliare l’assunzione di medicinali anti-convulsivi.

Nel caso di angioma cavernoso sintomatico, è necessario valutare se i sintomi non possano essere gestiti con terapia farmacologica, la malformazione si trovi o meno in una zona accessibile e se essa sia la principale causa delle crisi. Una volta esaminate tutte queste possibilità, è possibile optare per un intervento chirurgico di rimozione della lesione

Un caso peculiare: l’angioma cavernoso del tronco cerebrale

Questa tipologia di cavernoma è caratterizzata da una localizzazione molto particolare: si trova infatti in una zona assolutamente essenziale per le funzioni encefaliche. Un’eventuale emorragia potrebbe provocare danni neurologici molto seri e in alcuni casi il decesso. Anche i sintomi sono variabili e si manifestano nel 40% circa dei soggetti durante il primo sanguinamento. Il paziente può sperimentare la classica cefalea, ma anche vomito, vertigini, alterazioni del sensorio. Più raramente, possono presentarsi nevralgia del trigemino, perdita di coscienza e insufficienza cardiorespiratoria. Come le lesioni della medesima natura, un’emorragia da angioma cavernoso del tronco cerebrale può provocare deficit neurologici in base al suo posizionamento, deficit che peraltro tendono a migliorare con il passare del tempo: il 37% dei pazienti recupera completamente le funzionalità. L’intervento chirurgico con escissione completa si può ritenere un mezzo utile soprattutto con l’obiettivo di impedire una seconda emorragia dopo il primo episodio. Si deve intervenire tempestivamente quando la malformazione comprime in modo rilevante le strutture circostanti, eventualità all’origine dell’alterazione della coscienza. In questa situazione, è fondamentale la collaborazione attiva fra neurochirurgo e neurofisiologo, che consente il controllo costante delle funzioni neurologiche durante l’intervento.